Il colpo mortale al muro di Berlino lo annuncia una flebile fumata bianca. Sul quadrante della storia sono le 18,18 del 16 ottobre 1978, l’anno dei tre Papi. Mezz’ora dopo, alle 18,45, dalla voce del cardinale protodiacono Pericle Felice il regime comunista riceve l’avviso di sfratto dall’Europa dell’Est: “Habemus Papam… Carolum cardinalem Wojtyla”. La Chiesa ha scelto un Papa polacco, un vescovo di Roma che viene dall’altra parte della cortina di ferro, la linea di confine europea tra la zona d’influenza statunitense e quella sovietica. Quella sera, ma questo lo si comprenderà soltanto molti anni dopo, iniziò il tramonto della Guerra fredda. Il suo simbolo, il muro di Berlino, la cui costruzione era iniziata il 13 agosto 1961, sarebbe caduto soltanto undici anni dopo, il 9 novembre 1989, sotto i colpi mortali inflitti da quel Papa polacco che si presentò al mondo con un disarmante: “Se mi sbaglio mi corrigerete”. Non a caso un frammento del muro di Berlino è conservato nei giardini vaticani a perenne memoria del contributo determinante di Wojtyla alla fine della Guerra fredda. Una rivoluzione pacifica quella incarnata da Giovanni Paolo II e dal Premio Nobel per la pace Lech Walesa che fondò la prima organizzazione sindacale indipendente del blocco sovietico, Solidarnosc, e che divenne presidente della Polonia nel 1990.
Già la sera dell’elezione al pontificato il programma geopolitico di Wojtyla era abbastanza chiaro e definito nelle sue parole. “Lo hanno chiamato di un Paese lontano”, disse il neo eletto alla folla esultante di piazza San Pietro. E pochi giorni dopo, il 22 ottobre 1978, nell’omelia della Messa per l’inizio del pontificato, Giovanni Paolo II pronunciò parole che nell’Europa dell’Est suonarono come uno sfratto imminente per il regime comunista. “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura!”. Parole che hanno segnato la storia del Novecento in modo indelebile e che hanno trovato la loro piena attuazione in due gesti di Wojtyla: il viaggio in Germania nel 1996 con lo storico discorso davanti alla Porta di Brandeburgo e quello a Cuba nel 1998, esattamente venti anni dopo l’elezione al pontificato, con la celebrazione della Messa nella piazza intitolata a José Martí a L’Avana con l’immagine di Cristo sopra il palco papale posizionata di fronte alla gigantografia di Che Guevara, e con Fidel Castro in prima fila ad applaudire il Papa polacco “anche per quello che non condividiamo”.
“La Porta di Brandeburgo – affermò Giovanni Paolo II nel suo storico discorso del 1996 a Berlino – è stata occupata da due dittature tedesche. Ai dittatori nazionalsocialisti serviva da imponente scenario per le parate e le fiaccolate ed è stata murata dai tiranni comunisti. Poiché avevano paura della libertà, gli ideologi trasformarono una porta in un muro. Proprio in questo punto di Berlino, simultaneamente punto di congiunzione d’Europa e punto di divisione innaturale tra Est e Ovest, proprio in questo punto si è manifestato a tutto il mondo il volto spietato del comunismo, al quale risultano sospetti i desideri umani di libertà e di pace. Esso teme però soprattutto la libertà dello spirito, che dittatori bruni e rossi volevano murare. Gli uomini erano divisi tra loro da muri e confini micidiali. E in questa situazione la Porta di Brandeburgo, nel novembre del 1989, è stata testimone del fatto che gli uomini si sono liberati dal giogo dell’oppressione spezzandolo”. E a Cuba, nel 1998, il Papa polacco sottolineò che “per molti dei sistemi politici ed economici vigenti oggi, la sfida più grande continua a essere rappresentata dal coniugare libertà e giustizia sociale, libertà e solidarietà, senza che nessuna di esse venga relegata a un livello inferiore. In tal senso, la dottrina sociale della Chiesa costituisce uno sforzo di riflessione e una proposta che cerca di illuminare e di conciliare i rapporti tra i diritti inalienabili di ogni uomo e le esigenze sociali, in modo che la persona porti a compimento le sue aspirazioni più profonde e la propria realizzazione integrale secondo la sua condizione di figlio di Dio e di cittadino”.
Giovanni Paolo II, come lui stesso ricorderà più volte nel corso del suo pontificato, aveva sperimentato “dall’interno” i due totalitarismi che avevano tragicamente segnato il XX secolo: il nazismo e il comunismo. Il 6 agosto 1944 Wojtyla si salvò miracolosamente da una rappresaglia e dalla deportazione in un campo di concentramento, come svela oggi il suo biografo Gianfranco Svidercoschi nel volume “Giovanni Paolo II raccontato da chi lo ha raccontato” (Tau), appena uscito in libreria e curato dai vaticanisti Angela Ambrogetti e Raffaele Iaria. Svidercoschi, che collaborò con il Papa polacco nella stesura del suo primo libro “Dono e mistero”, scritto nel cinquantesimo del suo sacerdozio nel 1996, ricorda che il primo ritorno di Wojtyla in Patria, nel giugno 1979, “fu una rivoluzione, un terremoto che scosse alle fondamenta l’impero comunista”. “Non potevo non venire qui”, disse il Papa visitando l’orrore di Auschwitz. E non rinunciò a tornare in Polonia anche dopo il colpo di stato del generale Wojciech Jaruzelski, nonostante le critiche che gli vennero rivolte di “avallare” così il regime dittatoriale. Le sue visite servirono a tenere in vita Solidarnosc la cui ascesa, precisa il vaticanista del Tg2 Enzo Romeo sempre nel volume curato da Ambrogetti e Iaria, “fu sostenuta da Ronald Reagan. Il denaro americano, transitato tramite gli aiuti della Santa Sede, consentì a Walesa e ai suoi di resistere nei giorni duri della protesta, della crisi, dello stato d’assedio”.
Il grande pericolo dell’elezione di Wojtyla sulla cattedra di Pietro per la sopravvivenza del regime comunista fu chiaro fin da subito per i dirigenti dell’altra parte della cortina di ferro. Da qui scaturirà l’attentato al Papa per mano di Alì Agca, il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro, da cui Giovanni Paolo II si salverà miracolosamente. Nel suo libro-testamento “Memoria e identità” (Rizzoli), pubblicato nel 2005 poche settimane prima della sua morte, Wojtyla scrive che “l’attentato è stato una delle ultime convulsioni delle ideologie della prepotenza scatenatesi nel XX secolo”. E qualche anno dopo il cardinale Stanislao Dziwisz, per quarant’anni segretario di Giovanni Paolo II, non avrà difficoltà ad ammettere di vedere la mano del Kgb dietro quell’attentato. Wojtyla, alle 21,37 del 2 aprile 2005, conclude la sua lunga vita e i suoi ventisette anni di pontificato con il sogno irrealizzato di pregare a Mosca e a Pechino. Un sogno che oggi il successore che lo proclama santo, Papa Francesco, può realizzare.